L'EVOLUZIONE DEGLI STILI NELLO SPAZIO E NEL TEMPO

SICURAMENTE molti avranno provato il piacere di viaggiare accompagnati dalla musica, scoprendo una singolare somiglianza tra il movimento fisico, il paesaggio e quello che la musica racconta. E non è un caso  che la colonna sonora  più  adatta per un viaggio sia  quasi immancabilmente il rock. Tra musica popolare e l’idea di movimento ci sono affinità profonde e contiguità inscindibili. La musica popolare si può immaginare come una specie che si evolve incrociando stili, contaminandosi e modificandosi secondo l’ambiente, ma che si realizza  soprattutto viaggiando. La mobilità (l’idea dinamica di un linguaggio  che  si sposta, corre, compie percorsi)  sta alla base  di buona parte della musica  che ascoltiamo  oggi. Per non dire che molte canzoni sono addirittura nate dentro il viaggio:  basti pensare  al ricchissimo mondo  delle musiche zingare – dal

folklore arabo all’andalusia araba - e alla miriade di stili generati  proprio dal mescolarsi su diverse geografie culturali. Tra  l’altro quella del viaggio è una  delle principali tematiche  sviluppate da questa poesia popolare. Anche  le  musiche  americane non sono da meno. Molti nuclei afro - americani,  dal candomblè al reggae, sono nati da un viaggio forzato, ovvero della deportazione di milioni di schiavi dall’Africa, continente  nei cui confronti la cultura nera  ha sempre mantenuto  un’aspirazione  al “ritorno”, o addirittura all’esodo, come lo definì Bob Marley  in un celeberrimo disco. Lo stesso vale per il Nord america, patria del jazz, del blues, del rock,  un paese  nato  sull’idea stessa di  frontiera, di mobilità  nello  spazio  e nel tempo, dunque  di viaggio,  continuo,

inarrestabile. Molto prima che Elvis Presley incidesse i suoi primi selvaggi balbettii rock’n’roll,  e molto prima  che  anche lui cantasse la simbologia del treno (in Mistery Train), l’America della mobilità sociale  e del nomadismo,  aveva  generato  figure ormai  leggendarie che viaggiavano in senso letterale. Il jazz era frutto di svariati incroci e flussi culturali, ma a rappresentare meglio l’attitudine nomade fu il  blues. Ai primordi  del  blues  avvenne  il primo distacco  dallo stretto senso comunitario su cui si basava la cultura nera: tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello attuale, cominciarono  a delinearsi  delle strane  figure  di cantori, che  cominciarono a muoversi dalle zone rurali,  cominciando a tessere una rete di comunicazione allargata nell’ambito delle  comunità  afroamericane.

Dal Delta del Mississippi, cominciarono a muoversi per tutto il paese dei solitari bluesmen che viaggiavano in compagnia della propria chitarra, portando in giro come menestrelli le loro poesie corali o, in qualche caso, già fortemente individualizzate. Curiosamente si può notare che nel blues la chitarra serviva proprio a evocare la  dimensione comunitaria  che il bluesman portava idealmente con sé, trasformata in una struttura a domanda e a risposta, originariamente tra individuo e coro e poi trasposta  tra canto e chitarra. Ad ascoltare oggi  Robert Johnson o Leadbelly, tanto per citare due tra i cosiddetti “padri del Blues”, si ha sempre  una sensazione  di movimento, dalla Rock Island Line di Leadbelly,  che evocava  in senso ritmico il movimento del treno, a quella che già in Johnson diventa una vera e propria ossessione,  come è mirabilmente espresso

Robert Johnson, mito del blues morto a soli 27 anni

in Hellbound On My Trial. In qualche caso il bluesman solitario e itinerante esprime già il disagio della libertà dei neri  pagata al caro prezzo  dell’emarginazione e dell’allontanamento dai  propri riferimenti culturali. Ma  questo atteggiamento non fu solo della cultura afroamericana. Anche il folk bianco generò una simile figura di menestrello itinerante. Il suo più celebre rappresentante fu il celeberrimo Woody Guthrie il quale, seguendo le migrazioni  dei lavoratori, riuscì a cantare questa loro epopea. Nasce così la figura del “lonesome hobo”, dell’eroe  popolare  che porta  in giro  per le strade  la voce dei  diseredati,  figura caricata  di un forte alone di

romanticismo, mitizzata in seguito da tutta la cultura del rock. Era la stessa attitudine al viaggio che  negli scrittori  beat diventerà  il simbolo  stesso della  disobbedienza, dell' abbandono  di valori artefatti e stereotipati, un  istinto  verso  la  fuga  che ritroveremo  in pieno  nella  cultura rock, da Presley   a  Springsteen,  passando  per  Easy Rider.  Con  l’avvento del jazz  la  cultura del  “viaggio” comincia  ad  avere  una  sorta  di sistemazione.  Non  soltanto perché i singoli jazzisti  sono per loro stessa  natura  “nomadi”,  ma  anche perché  il  jazz è la prima musica a raccontare  il viaggio   in maniera nuova:  se  i bluesmen avevano   iniziato  a parlare  di moderni mezzi di trasporto  (basti pensare alla centralità  del tema  del treno nelle  storie  raccontate dal blues),  pur restando  in una dimensione  comunque rurale  e di folklore,  i jazzisti parlano  di trasporti veloci,  di migrazioni  che  non sono  soltanto fisiche  ma anche intellettuali. Ellington  sviluppa il tema della giungla, ma la fa rivivere in una dimensione  esistenziale  e  culturale  molto  più  ampia  e   moderna.  Non  c’è “nostalgia” nell’immaginario viaggio  che il jazz  intraprende,  ma piuttosto  la necessità di riconquistare,  con  la musica,  territori culturali  e  di  passioni  che  sono  stati  loro espropriati.

      Il gruppo degli Allman Brothers

 

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