IL
MITO "ON THE ROAD" E IL CINEMA |
IL
MOVIMENTO
è sempre stato un segno caratteristico della cultura americana. Non è certo un
caso se negli Stati Uniti prospera (si fa per dire) la vita nei caravan, nei
camper, e non è neanche un caso se negli Stati Uniti il mito del viaggio
attraversa tutti i generi di espressione artistica, dalla letteratura alla
musica al cinema. Se sono innumerevoli i testi
letterari fondati sul viaggio, la mitologia della strada si
è costruita - e ha dilagato – proprio dal romanzo eponimo, on The
Road. La popolazione ribelle e avventurosa degli eroi di Kerouac, gli
ir- |
Una
scena di Fandango di Kevin Reynolds |
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regolari che rifiutano il “paradiso
dell’ambizioso” e che vedono nel
viaggio “una liberazione o un narcotico”,
e dopo di loro i viaggiatori di Burroughs, di Paul Bowles e di molti altri, sono stati i
precursori di una tribù transumante
che, meno audacemente, meno sconsideratamente, meno a rischio,
si è messa a viaggiare in romanzi,
film, canzoni. E’ naturale
che soprattutto il cinema abbia accolto
questa
“invitation au voyage”.E’ naturale perché, alle possibilità fantastiche del testo scritto,
il cine-ma aggiunge la concretezza delle
immagini. E perché era solo il cinema che, negli
anni immediatamente successivi alla esplosione della Beat
Generation, poteva far arrivare al grande pubblico un
discorso così ribellistico, eversivo, rivoluzionario, che mentre sposava l’amore per i grandi spazi americani e le infinite possibilità
di fuga che esso offriva, ne rifiutava..al
tempo stesso .tutta la cultura
.consolidata.
Nell’arco di pochi anni il cinema on the |
road diventa quasi un genere a parte, con le sue
regole e le sue infrazioni,con i suoi poeti e i suoi epigoni, che trasportano le
sue forme in altre culture (penso a Wenders e a Nel Corso del Tempo,
road movie americanissimo traslato in Germania). Curiosamente
il road movie che nel 1968 ha segnato un’epoca e lan- |
ciato molte mode, Easy
Rider, contraddiceva una consolidata filosofia: l’America è un
piano inclinato, e
tutto quello che non ha radici finisce in California. I
suoi due protagonisti
e autori, Dennis Hopper e Peter
Fonda (reduce da uno sfortunato tentativo di film “off” che si intitolava,
guarda caso, “The Trip”, ma aveva a che fare
con tutt’altro tipo di
viaggio), a cavallo di due chopper dalle lunghe forcelle che sarebbero poi diventate una mo-da, partono dalla
California, ricchi degli incassi di una bella partita di droga, alla volta di
New Orleans, dove impazza
il carnevale. La loro fuga però finisce
prima, in
una tragica sequenza di innocenti
provocazioni e di
intolleranze feroci.
Ma Easy
Rider (italianamente e con eccessiva chiarezza
ribattezzato Libertà e Paura) diventa il
manifesto di un nuovo modo di viaggiare e vivere, di una fusione in libertà tra la metafora
della vita e la vita stessa, di un rifiuto dei tradizionali valori del possesso e della stabilità: come si fa a
possede- re qualcosa, quando il massimo che puoi portare con te
è lo strumento stesso con
cui stai fuggendo? |
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Dennis Hopper e Peter Fonda in
Easy Rider
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Anche il nostro
Michelangelo Antonioni, suscitando permalose reazioni americane, osò, nel 1969,
invadere il territorio statunitense e quello dei viaggi. Tanto da chiamare
il
suo film con il nome di uno dei luoghi più remoti e magici della già magica
Valle della Morte, Zabriskie Point, il punto di massima
depressione
geologica degli Stati Uniti, dove arrivano in fuga dal mondo della regolarità i
suoi due protagonisti, Daria Halprin e Mark
Flechette. E la grande
fuga continua l’anno dopo con Vanishing Point (Punto Zero) di
Richard Sarafian, dove il protagonista guida a velocità folle per
millecinquecento
miglia tra California e
Colorado, cercando di farcela in quindici ore, mentre un DJ
cieco tifa per lui e ci bombarda di musica. Sulla strada si svolge anche
Cinque
Pezzi Facili di Richard Sarafian, un altro film culto di quegli anni,
dove Jack Nicolson, che avevamo appena conosciuto in Easy Rider, cerca e insieme fugge
la sua famiglia e le sue tradizioni. E perfino i
Western – |
Geena
Davis e Susan Sarandon in Thelma e Louise |
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che hanno
sempre incarnato lo spirito del viaggio e
dell’avventura – sono in quegli anni degli espliciti
road movies, da Mucchio
Selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, a Butch Cassidy, L’ultima
Corvèe di Hal Ashby (1973) che rivelò un aspetto inconsueto del
cinema hollywoodiano, fatto di durezza, bordelli, parolacce e cattiveria.
Il
seme è gettato. Diceva
Stevenson che “viaggiare con una speranza è meglio che
arrivare”. Invece
i personaggi dell’era post-Kerouac, che siano di carta o di pellicola, viaggiano per disperazione, per fuggire, per dimenticare,
per farsi dimenticare.
E
molto spesso non arrivano. Oppure,
arrivano dove nessuno penserebbe
che un essere umano possa mai arrivare. Penso alle ultime
nipotine di Jack Kerouac, Thelma e
Louise, che, dopo il folle viaggio attraverso il
sud-ovest degli Stati Uniti, si lanciano nel Grand Canyon…
Sulla strada si comincia col vivere alla giornata e si finisce col preferire pochi giorni da leone
a settant’ anni da casalinga.
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Una
dettagliata pagina sui road movies con tanti titoli di films
potete trovarla
qui.
Le moto
e i sidecar nei classici del cinema, da Easy Rider a Vacanze
Romane
qui.
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